Dune: Part Two – Recensione


Villeneuve chiude il cerchio e alza l’asticella. Dune: Part Two è un’esperienza sensoriale, politica e mitologica, un’opera che non chiede il tuo tempo: lo prende, senza più esitazioni. Due ore e mezza in apnea nel deserto di Arrakis, tra visioni mistiche, vendette profetiche e sabbie che divorano eserciti.

Se la prima parte era il prologo, qui c’è l’ascesa: di Paul, del mito, del culto. E c’è la caduta, morale e personale, in un finale che gela il sangue. Chalamet cambia volto: da predestinato tormentato a figura messianica inquietante. Va avanti per ciò che ha perso, più che per ciò in cui crede.

Zendaya ha finalmente il ruolo che meritava, austera e fragile. Austin Butler è truccatissimo, spiritato, disturbante. Ci sono momenti che sfiorano l’horror, nel cuore dello spazio. Florence Pugh e Christopher Walken osservano silenziosi, come spettri dell’Impero. E Rebecca Ferguson? Semplicemente inquietante.

La regia è precisa, monumentale: Villeneuve non insegue lo stupore, lo orchestra. La colonna sonora di Zimmer, tribale e disturbante, devasta timpani e nervi. Il suono in questo film non accompagna: domina. La guerra qui non è spettacolo. È rito. È martirio. È spettacolo sacro.

La sceneggiatura mette in scena il peso del fanatismo e il prezzo del destino. È lento, certo. È pesante, certo. Ma è Dune. E stavolta Villeneuve non cerca compromessi.

Voto: 9/10

 

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